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The Old Maid (1972)
2/10
Disrespectful
26 December 2020
A man and a woman meet in the same hotel in the south of France, while spending their respective holidays alone. The movie was released in 1972, when an unmarried woman of 30 was still called "spinster" and people, either men or women, were mocked for their being single, in two different ways. Several moments of inappropriate humor follow each other: "Do you want a room in order to sleep or to make love?" asks the receptionist, and suddenly shows a false embarrassment, hiding some mockery, when he sees that the man who has just asked for a room is alone. The woman is constantly shown on her own on the beach, making clumsy moves inside a big poncho to change out of her wet swimsuit, while around her, groups of people chat, flirt, and enjoy happily. In this movie (and the French should be known for being open-minded and avant-garde...) single people are sort of "aliens", lonely, goofy and pitiful and, when a man and a woman of that kind meet, it seems they are required to "combine their loneliness", no matter if they might not like each other completely. The same mocking humor invests the minor characters, no more than caricatures (the nymphomaniac chambermaid, the Anglican priest always talking of death, his wife who fasts and has stigmata drawn on her hands and feet...). Nothing happens, except for some stupid dialogues and some small awkward incidents, the background of the two characters is not revealed and a possible relationship between the two is just a (future) possibility. And what does the ending mean, with the two young girls, the same who talk nonsense in the first scene, now missing their train? If the original title is disrespectful, the Italian one, "La tardona", is highly offensive.
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8/10
Love is not all we need
15 June 2019
The source of this movie is a book (same Italian title) by Giorgio Saviane. The young Sena breaks her long-lasting relationship with Paolo, her former university professor, for unknown reasons. After some time, they start to see each other again, and the reason of the rupture soon comes up: a vital contrast that definitely opposes each other (and that I prefer not to mention). Since no solution is possible, the only way is to kill their love, still alive and passionate, like one (as the original title suggest) may kill a patient suffering from an incurable disease. The movie reflects some social issues of the late '70s in Italy and the story is centered on the selfishness and presumption of an intellectual, filled with some post-68 anti-bourgeois culture. The concrete needs of the woman are in contrast with the abstract and controversial ideas of the man, who could perfectly give them up to please the woman he loves so deeply, but he doesn't, and does not even understand the suffering he has already inflicted on her for the same purpose. Enrico Maria Salerno was an excellent actor but I personally love him also as a director, and loved this intense and melancholic movie. I just wonder why on earth the writer of the book chose for the female character the weird name of Ursenna, shortened as Sena.
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Il mostro (1977)
4/10
Undefined genre
15 June 2019
Warning: Spoilers
A frustrated journalist, divorced from his wife and living with a shy teenager son, exploits the murders of a mysterious serial killer to make his way in the world of the press.

But the movie is not simply as the subject suggests, and its genre is undefined: a thriller lacking suspense, a wanna-be criticism of the Italian society of the time and a disturbing dark comedy sometimes bordering on farce (difficult to say if the resolution and the final scene are bitter, shocking, absurd or just ridiculous).

The movie is deeply affected by Dario Argento, and not only for the brutal murders: the director makes free use of some of Argento's typical features, such as the far-fetched dialogues, the sudden, scary apparition of a puppet ("Deep Red") and a crime scene in which the victim is believed to be the murderer, and vice-versa ("The Bird with the Crystal Plumage").

Some say that, for the cynical representation of the world of the media, if it weren't for the hair and the colors, it could be a present-day movie. It's wrong. It's a typical '70s movie, so politically incorrect that it could never be shot nowadays. Dorelli's acting is way over the top, that adds to the puzzling and grotesque effect.
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Crash (I) (2004)
5/10
L'America che si lava la coscienza
24 January 2010
Warning: Spoilers
L'Oscar 2006 per il miglior film, a sorpresa, a Crash - Contatto fisico è l'apoteosi dell'ipocrisia americana. E' l'America che si lava la coscienza, prima di continuare a causare tutti i conflitti illustrati dal film stesso.

Pubblicizzato in Italia, da un'idiota frase "ad effetto" -"quando si viaggia alla velocità della vita (?) scontrarsi è inevitabile" - il film – che ho trovato piuttosto brutto, schematico, didascalico, con dialoghi al limite del comprensibile, un uso del ralenti ossessivo, colonna sonora insopportabile – tratta di una serie di storie incrociate, di ordinaria intolleranza e valenza paradossale, nel melting pot di Los Angeles, dove, emblematicamente. non si sa più chi siano i "buoni" e i cattivi": il poliziotto "cattivo" interpretato da Matt Dillon, si scopre che è incattivito dal sistema sanitario che non gli copre l'operazione per il padre malato, e salva la vita alla stessa ragazza nera che, abusando della divisa, aveva umiliato il giorno prima; quello "buono" finisce per uccidere, scambiando una statuetta per una pistola, il ragazzo nero al quale ha dato un passaggio; il commerciante iraniano rapinato se la prende con un fabbro ispanico che gli aveva consigliato invano di sostituire la porta, e spara rischiando di uccidergli la figlioletta, ma la pistola era stata caricata a salve dalla figlia dello stesso commerciante, che intelligentemente ne aveva previsto un uso scriteriato; e così via.

Cosa ci vuol comunicare, Crash, che già non sappiamo? Che l'intolleranza nasce dalla paura, la cattiveria nasce dalle ingiustizie subite, che il sistema sanitario americano fa schifo, che la polizia abusa del suo potere, che la vendita libera delle armi non previene i crimini ma li produce, che Los Angeles è una realtà disumana ("ecco, questa è l'America!" dice il ladro di colore liberando il gruppo di impauriti profughi thailandesi che ha rapito "per sbaglio" insieme al furgone)?

Cosa ci vuol comunicare, di nuovo? Che il razzismo si può sconfiggere con la sensibilità e l'intelligenza, a patto che qualcuno nel frattempo non ci pesti i piedi?

Ci riesce? Mah. Fatto sta, la mia sensazione è che Crash sia uno di quei film in cui, uscendo dal cinema, lo spettatore ritrovi il proprio razzismo latente sottilmente e sotterraneamente riconfermato.
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7/10
Perplessità in un "giallo" classico
6 January 2010
La critica ha parlato di "atmosfere alla Simenon", trasferite nella provincia friulana. E' un giallo "psicologico" senza suspense e senza scene violente, e nello stesso tempo un'indagine nei lati oscuri dei legami familiari e della vita di provincia. Si tratta di un film discreto, ma la regia troppo "televisiva" e alcune particolari scelte mi hanno suscitato un po' di perplessità.

La struttura narrativa è quella classica del giallo, con una ragazza trovata morta sulle rive di un lago, un assassino che può essere uno qualunque dei personaggi che attraversano il film, fino alla rivelazione finale.

C'è innanzitutto da domandarsi: ma perché tutti i personaggi del film sono pieni di disgrazie, anche grosse? In particolare, sono quasi tutti malati di qualche malattia, lieve o grave. Ecco! – può venire da pensare – la malattia come metafora del male serpeggiante che corrode la provincia e la famiglia! Forse era quello che il regista Molaioli aveva in mente.

Ma, mentre alcune malattie sono definite con grande precisione – la dermatite atipica del commissario, ad esempio – non è chiaro cos'ha la moglie, che rinchiusa in un ospedale psichiatrico, innamorata di un altro degente, non si ricorda di avere una figlia, e scambia il marito col fratello (altra metafora). Alzheimer precoce, in una donna di una quarantina d'anni? Non ci viene detto.

E il bambino, figlio di Chiara e Corrado? Ci viene detto che continuamente piange e urla, e poi che "vive in un mondo tutto suo, e il medico ha detto che può solo peggiorare". E', allora, un autistico o un caratteriale?

Altra perplessità, la confessione troppo frettolosa nel finale, da parte dell'assassino che vuole tenere nascosto il vero movente, e quando viene scoperto anche questo, non tutti i tasselli vanno al loro posto, e permangono alcuni interrogativi che in un "giallo" classico, non dovrebbero restare.

Rimane, comunque, un film da vedere, anche e soprattutto per la bella recitazione di Toni Servillo, che interpreta il commissario. Ma, sullo stesso genere e con una trama simile, mi è piaciuto di più "La giusta distanza" di Mazzacurati.
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8/10
Di fronte alla bellezza pura, tutto il resto sono orpelli
6 January 2010
Warning: Spoilers
A me il film è molto piaciuto. Niente di strano, se non il fatto che straborda di difetti non trascurabili.

  • Il film non è credibile, né come vicenda, né come parabola, né come metafora.


  • La recitazione di Raz Degan è discutibile, approssimativa, forse pessima.


  • Non si sa – o forse non l'ho capito io – se c'è un significato simbolico-metaforico che va al di là di ciò che vorrebbe far credere (l'idea che ciò che conta siano i rapporti umani, l'amicizia, la convivialità, la vita semplice, basta con la lettura e la cultura che sono concetti sterili, cristallizzati, che portano alla pedanteria);


  • Non si sa – o forse non l'ho capito io – se c'è un significato religioso o metareligioso che va al di là di quello, scettico e profondamente critico, che il cattolicissimo Olmi sorprendentemente infila nei dialoghi ( "un giorno Dio dovrà renderci conto di tutto il male che ha lasciato accadere… non è stato capace nemmeno di salvare suo figlio");


  • Uno che fa ciò che ha fatto il protagonista nel film, nella vita reale verrebbe realmente giudicato pazzo e rinchiuso, altro che trovare poliziotti che filosofeggiano con lui;


-Il regista sembra volutamente voler ignorare che è la chiusura mentale, e non l'apertura al nuovo e al diverso, a caratterizzare i paesini; un forestiero che si presenta nel villaggio così come il protagonista si presenta, nella vita reale verrebbe preso per pazzo, deriso o temuto come la peste;

  • Il finale, che sono ancora qui a domandarmi perché.


Eppure, incredibilmente, il susseguirsi di quelli che dovrebbero essere ingenuità, luoghi comuni e incongruenze scorre avvolgendoci in un turbine di bellezza: la fotografia, il ritmo, l'atmosfera, i luoghi, i visi della gente; la gente "comune", attori non professionisti, che Olmi ama inserire nei suoi film.

Il grande Fellini echeggia sullo sfondo.

Immersi in un'atmosfera magica, poetica, possiamo ascoltare Olmi raccontarci ciò che vuole, nascondere, divagare o contraddirsi: trama e realismo non hanno più importanza, niente ha più importanza. Di fronte alla bellezza, tutti questi sono orpelli. Olmi è un grande regista perché nessun altro sarebbe stato in grado di fare una cosa del genere – trasformare un film strampalato in poesia pura.

C'è, in questo film, qualcosa di "La leggenda del Santo bevitore" (ma l'affascinante vagabondo interpretato da Rutger Hauer, che manca alla promessa fatta a Santa Teresa riguardo la restituzione di un piccolo debito, perdendo tempo in una serie di momenti conviviali al bar con un amico o con l'altro, mi sembra che rappresenti il messaggio opposto - oppure no, oppure è lo stesso? - a quello che Olmi ci vuole dare qui).

"Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico": fatto sta che nel finale (SPOILER!! SPOILER!!) – ed è l'ultima inspiegabile sorpresa - gli amici verranno abbandonati proprio da chi pronuncia quella frase e, delusi, rimarranno ad attendere invano alla festa, che avevano accuratamente preparato, un figliol prodigo che non ritornerà.
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8/10
"...questa, è la domanda!"
6 January 2010
Dopo anni non brillantissimi per la sua cinematografia, Francesca Archibugi è tornata ai fasti di "Mignon è partita" (uno dei film più intensi sull'adolescenza e sulla maternità degli ultimi decenni) e "Verso sera" (sullo scontro generazionale, uno dei pochi film che parlano del movimento studentesco del '77).

Kim Rossi Stuart, qui molto bravo, è Angelo, un carrozzaio di estrazione proletaria, con moglie, due figli e un terzo in arrivo. Antonio Albanese è Alberto, uno sceneggiatore di Cinecittà, laureato, frequentatore di feste e locali, in crisi con la sua compagna. Si incontrano in un ospedale dove sono stati entrambi ricoverati per infarto.

Tra i due nasce un'amicizia quasi adolescenziale che diventa un affetto vero, ben diverso dal solito cameratismo maschile fatto di calcio, birra e rutti, diverso anche dal sodalizio goliardico e misogino alla "Amici miei".

Paradossalmente, il proletario è quello che se la passa meglio, essendo riuscito, tramite lavoretti in nero, a diventare proprietario di tre appartamenti e una casetta al lago, mentre lo sceneggiatore ha speso tutto per condurre la sua vita "glamour", e – inizialmente – sarà proprio il primo ad aiutare l'altro. Chiaramente, ognuno dei due ha qualcosa da dare e da insegnare all'amico.

Una storia di questo tipo rischiava di prendere una delle due pieghe seguenti. 1) la possibilità che uno dei due si innamori della donna dell'altro, scatenando un conflitto; 2) la possibilità della nascita di un rapporto omosessuale tra i due. La Archibugi (ed è l'aspetto più geniale del film) sembra prospettarci una dopo l'altra entrambe le possibilità, in realtà le sfiora, ci gira attorno ed abilmente se ne allontana, mostrandoci in una sorta di espediente metacinematografico come sarebbe diventato un film del genere nelle mani di un regista interessato solo al successo al botteghino, da perseguirsi battendo le strade più banali.

E se l'immagine di una Madonna in frantumi potrà forse scandalizzare qualcuno, la Archibugi, senza rinunciare ad una certa leggerezza, ha molto, tramite i suoi personaggi, da insegnare allo spettatore; come l'idea che l'importante nella vita è porsi degli interrogativi ("Questa, è la domanda!" ripete sempre Alberto), più ancora che individuare la giusta risposta.
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2/10
Il genere cambia, Von Trier no
3 January 2010
Il cinema di Von Trier si ama o si odia, e io appartengo al secondo gruppo. Sono andata a vedere questo film incuriosita dal fatto che il regista avesse abbandonato i suoi drammi dalla cupezza insostenibile per rappresentare, stavolta, una commedia che – a tratti – vorrebbe essere divertente. Niente da fare, le sue principali prerogative non cambiano.

E pensare che l'idea era parecchio interessante. Un imprenditore decide di vendere la sua fabbrica agli islandesi (siamo in Danimarca) ma non ha il coraggio di comunicare ai suoi dipendenti che verranno tutti licenziati, e assolda un attore fallito, che dovrebbe fingere di essere il Grande Capo del titolo, e informare il personale, come decisione sua propria, della vendita e del conseguente licenziamento. Ma anche l'attore esita di fronte a tale responsabilità, e soprattutto il ruolo risveglia in lui pulsioni istrioniche che trasformano la sua finzione in una recita a soggetto, e quando – in modo del tutto casuale - l'acquirente islandese, stupito dai suoi sproloqui, gli cita al proposito il nome di un tal Gambino (il drammaturgo che da sempre l'attore sognava di interpretare), il finto Capo si lascerà andare a un delirio di onnipotenza che provocherà l'amarissimo finale.

Questo è il soggetto; non una satira aziendale, quindi, come può sembrare (e come molti critici hanno banalmente recensito) ma uno sofisticato gioco finzione/realtà. In mano ad un altro regista, non prigioniero dei suoi virtuosismi e autocompiaciuto dei conseguenti irritanti risultati, poteva essere un gran bel film.

Von Trier, invece, si serve di una sceneggiatura improbabile che lo rende oscuro e confuso, freddo e noioso, e di riprese effettuate tramite una sofisticatissima apparecchiatura computerizzata provocando finti errori di montaggio, come se le scene fossero girate da un dilettante tra i più incapaci. Perché? Per provocare, ovviamente. Per proseguire a divertirsi a prendere per i fondelli il pubblico e affermare nel contempo il suo ego insopportabile e il suo vano intellettualismo. Mi ha lasciato l'idea di un'occasione sprecata, di canoni estetici calpestati senza pietà, con sadismo. Come accadeva alle eroine dei suoi film precedenti.
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3/10
Morboso e insopportabile
3 January 2010
Non si smentisce Atom Egoyan, con questo film insopportabilmente morboso, come tutti i suoi altri.

Una giornalista esordiente indaga, dopo sedici anni, su un misterioso delitto che ha distrutto la carriera di due comici hollywoodiani (una ragazza era stata trovata morta nella vasca da bagno della loro suite) con la fama di benefattori per il loro impegno in maratone televisive Telethon per bambini poliomielitici. La verità sembra impossibile da raggiungere, invece sia l'assassino che il movente sono, a conti fatti, abbastanza prevedibili.

Ma non è solo un noir. E' soprattutto un film di Egoyan. Ovvero: atmosfere liquide e rarefatte, struttura complessa giocata sull'avanti-indietro dei piani temporali, manierismo autocompiaciuto, l'ombra della pedofilia (qui solo come parodia, nella figura di Alice) morbosità a fiumi sia nelle scene di sesso quasi hard (ma perché mai la giornalista accetta di piegarsi ai rischiosi giochetti che le vengono proposti?) che nella rappresentazione del dolore, ossessione colpa-punizione, cupezza e noia mortale nel trattare temi da noir appesantiti dall'idea del Peccato, e per fortuna qui ci risparmia i pistolotti moralistici sulla salvezza e sulla fede.

Come in Exotica, come in Il dolce domani e Il viaggio di Felicia, Egoyan è un regista che si autocompiace nel trascinare lo spettatore nelle sue ossessioni e morbosità, spesso accompagnate da un moralismo insopportabile. Perversioni, incesti, stupri ai quali fanno da contrappeso redenzioni e scene di "conversione alla verità" da Giorno del Giudizio, tanto morbosi quanto i misfatti che vorrebbero rimediare.

Il cinema di Egoyan è un cinema per filantropi che si aprono l'impermeabile, per chi sta in bilico tra santità e sesso orgiastico, per chi ama rigirare il coltello nella piaga a sé e agli altri, per maestri o preti che rischiano di rivelarsi pedofili e per finti pedofili vicini al misticismo. Non che siano esplicitamente questi i personaggi dei suoi film: ma ci vanno molto vicino. E questo gioco di ambiguità, con la pretesa di raggiungere, con ambizioni da integralista, la ricerca della verità con la V maiuscola, produce un cinema inquietante e fastidioso.
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Asylum (2005)
7/10
Nei labirinti della mente
1 January 2010
Il film è piuttosto bello e non tradisce il romanzo omonimo di Patrick McGrath da cui è tratto, nonostante le modifiche apportate al finale, che, riguardando non il "cosa" ma il "come", non snaturano lo scritto originario.

Il film parla della storia tra Stella (la compianta Natasha Richardson), bella moglie di uno psichiatra, ed Edgar, un paziente ex scultore, uxoricida. Fuggita per raggiungerlo, dopo che egli stesso era fuggito dall'ospedale, la donna inizierà una discesa agli inferi che minerà la sua stessa salute psichica e la porterà ad essere ricoverata nella stessa clinica, fino al tragico finale.

La bellezza del film, oltre che nello stile asciutto, misurato, senza enfasi melodrammatica né patetismi (temevo molto per l'episodio centrale, il più autenticamente drammatico del film, girato invece in modo efficacissimo ed equilibrato), ha una serie di meriti con i quali evita le banalità in cui molti altri registi sarebbero miseramente caduti, ovvero:

  • Il rapporto che lega Stella allo scultore, più ossessione che passione (solo momenti di allegria, mai autentica felicità, nei momenti che la donna passa con Edgar);


  • La fuga della signora "borghese" equiparata alla fuga del malato psichico dalla clinica, e considerata anzi più grave (dopo la loro fuga, è lei, non lui, ad essere "ricercata", e al suo ritrovamento dovrà anche passare una notte in carcere, prima ancora dell'autentico e odioso crimine di cui effettivamente si macchierà)


  • la figura del marito: uomo debole o marito comprensivo (ma fino a un certo punto)?


  • nonostante ci mostri la forte pressione sociale della buona società degli anni Cinquanta, il film non prende mai strade banali: non ci dice, ad esempio, che la passione, nonostante tutto, vince sulle convenzioni, o che, tout-court, "i veri matti sono fuori", e Stella ci appare come prigioniera di una gabbia che è sia fuori che dentro di sé.


  • e soprattutto: l'ambigua figura dell'anziano psichiatra, manipolatore della psiche altrui e uomo solitario, in sospetto di omosessualità (il suo interesse per Edgar è dedizione al proprio lavoro o è anch'esso attratto da lui?), che offrendosi di sposare Stella, ormai sola e distrutta, sfrutta la situazione per garantirsi compagnia, vita "normale", e affermazione del proprio potere, ma tutto preso dal proprio interesse personale non si accorge della mancata guarigione di lei, finendo così per essere "gabbato" nella propria professionalità, da Stella stessa.


Così, sotto le spoglie di una storia "rosa" che poi tanto rosa non è, il film ci mostra benissimo l'aspetto che McGrath, psichiatra oltre che scrittore, vuole far emergere: una efferata critica non esattamente alla psichiatria, ma al potere di certi psichiatri, professionalmente mediocri, ma forse più pericolosi dei loro pazienti.
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5/10
perchè vincere significa accettare...
31 December 2009
Non mi è piaciuto. Non è un film sul precariato. E' un'accozzaglia di situazioni limite e di personaggi grotteschi che negano ogni credibilità al serio problema che si vorrebbe affrontare.

Il film, nel descrivere un ambiente, non è né realistico né surreale (penso all'efficacissimo "La scuola" di Luchetti, che riusciva ad essere entrambe le cose).

Il mondo dei call center – ove si raggirano telefonicamente persone al fine di vendere un elettrodomestico costosissimo e inutile - non è visto come un rifugio dei giovani disoccupati e disperati, con casi – ognuno con la propria storia - di varia umanità, ma un microcosmo di imbecilli tutti uguali, che guardano estasiati il Grande Fratello e nemmeno si accorgono, nel tentativo di portarsi a casa la pagnotta, di essere dei disperati orrendamente manipolati. In questo ambiente si destreggia la protagonista, laureata in filosofia, che ha capito che l'unico sistema per sopravvivere è integrarsi per bene nell'ambiente, e sorprendentemente, ci riesce, rivelandosi bravissima a gabbare le casalinghe al telefono. Finché il sistema stesso, tenuto in piedi da un emerito gaglioffo e da una psicopatica, imploderà autodistruggendosi, con tanto di svolta drammatica, poiché il pedale del grottesco tanto vale spingerlo fino in fondo. E mentre alcune ragazze, "perdenti" perché "incapaci" di procacciarsi i malcapitati clienti, finiscono licenziate tra umiliazioni e lacrime, la nostra riesce invece a diventare la protetta dei due mefistofelici manager, e diretta testimone del loro graduale disfacimento.

Il contrasto vincenti/perdenti è qui uno dei concetti chiave. Cosa vuole dirci questo film? Che l'intelligenza e la cultura sono sempre vincenti, anche in quei luoghi adibiti alla negazione dell'intelligenza e della cultura? Magari fosse davvero così. Ma e' solo facile ottimismo. A tratti, il film mi ricordava "Il diavolo veste Prada". Sembra che sia un trend di questi anni, il mostrare una ragazza in gamba che solo accettando di farsi vessare e umiliare (là dalla capa, qui dal lavoro stesso) riescono a dimostrare il proprio valore.

Davvero viene la nostalgia degli anni sessanta, della lotta di classe, del "non ci sto". Questo genere di film sembra illuderci che facendo il gioco del nemico, che sia una persona o un'istituzione, o entrambi, si avrà la meglio su di lui: non è vero. Un film con pretese sociali o sociologiche dovrebbe suggerire il messaggio che il problema non è come riuscire ad essere dei vincenti, ma riuscire a vivere in un mondo dove non è necessario esserlo.
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Figli/Hijos (2001)
Historical denunciation or existential drama?
6 February 2002
It's too easy and it may be reductive, in dealing with such a film, to say that it is about the children of Argentinean desaparecidos, that it is about an obscure moment of present history, that it is a witness or an accusation concerning a hidden series of crimes that are aimed to carry to the surface. That is surely the intention of the director, but the audience may freely say that they're not interested in the subject; moreover, all this may lead to think that it consist of a sort of documentary or a film-dossier with TV features. It isn't. Without subtracting the importance of the historical denounce underneath, another way of looking at it has to be taken into account: it is also (or above all) a film on doubt and deception. Which son, more than the protagonist of the story, had ever been better deceived? His parents are not his real parents, nevertheless he has been guiltily snatched out by his true mother's arms, and his father is an unpunished criminal. Besides, the illusion of having found a sister (rejected at the beginning, hoped little by little as the story proceeds) is mocked by a reality that, together with horror, carries on doubts and uncertainties: the true identity of the boy comes out, but the one of the girl who fights for truth, persuaded to be his twin sister, doesn't. Trapped in an authentic existential drama, the boy can't do but searching a solution that has to be, as well as tragic, symbolic and meaningful, since his life has now, no longer, any meaning. Thus, the movie goes beyond the historical facts and becomes a private but universal tragedy of deception.
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Music to escape from a narrow world
9 October 2001
The simple plot of this movie ( the rise to success of a group of Dublin working-class soul musicians, and their consequent decline, owing to petty, trivial inner quarrels) is just a pretext for a vivid, effective picture of Dublin life. The outlook on that part of society aims mainly to explore the wish, among the young generations, to escape from a narrow-minded world, from squalid urban suburbs, from unemployment, from a reality which has nothing to offer them: lacking any prospects for the future, young people own low expectations and narrow horizons (Joey's final sentence to Jimmy summarizes efficaciously this mood: "the success of the band was irrelevant…you raised their expectations, you lifted their horizons…this is poetry"). The forced urbanization, in a country of rural traditions, has produced paradoxical effects: a little boy tries insistently to enter a horse in a lift; the music critic (who also writes crime news) is met while reporting an accident occurred to another horse in the road traffic. Parents are unsympathetic as they have different values (on the wall in Jimmy's home there are pictures of Elvis Presley and Pope Giovanni XXIII), or they are simply struggling to get by (Bernie's mother). The heavy influence of the Catholic Church is shown throughout all the movie: Steven practises on the organ of the Church; the first gig of the group is in the Church Community Centre; sacred images, processions, confessionals, recur in the scenes underlining the constant presence of religion in people's daily life. Another feature which is pointed out is the young people's moral behaviour: an unexpected moralism lurks among boys that do their best to be "transgressive" but run into gossip and heavy malignity when a girl seems to be involved in a love affair (Bernie with Joey, or Imelda seen on Joey's motor-cycle). Pregnancy, however, seems to be the obvious cause of great part of marriages: both Imelda's sister's wedding, which opens the film, and the one of Imelda herself, in the end, happen for this reason; at her sister's wedding party, at the sentence: "I suppose you'll be next" she answers "I'm not pregnant". Not yet. Dangers such drug and street violence are taken into account too, but are developed in a non-dramatic way, with an ironical outlook, in the characters of Duffy, the drug-dealer who also rents music gear, probably stolen, and of Mickah Wallace "the savage" who loves fighting in the street, but fears the reproach of his friends' mothers. To be recommended to teachers dealing with Ireland present life: it's better than a textbook.
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9/10
Learning life from cinema
7 October 2001
Ozpetek explores the two worlds, the one of the "regular" and the one of the "different" with deep honesty. The film may seem to oppose boring bourgeois life to a joyful world of outsiders, where unconventionality develops into sincere values of solidarity and friendship; but Antonia's life with her husband wasn't so boring, as we can see in the initial scene; on the other hand, the world in which Michele and his friends live is full of problems that are well-shown. This balance that is constantly kept, as well as a sort of a self-critical attitude of homosexual life (Michele and Antonia's quarrel under the rain), in a film that seems to be anyway on the homosexual side, shifts the accent on the true problem: the impossibility to conciliate, in some cases, affectivity and sexuality, and consequently the impossibility of happiness. I recommend this movie to all those women who, in spite of them, have fallen in love with a man who is bisexual or gay, and are willing to understand. Perhaps they will find some answers in it.
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Rebus (1989)
unsolved mysteries
6 October 2001
The plot might seem banal, but what is fascinating in this film is the atmosphere: mainly, mysteries that remain unsolved: what is the shady affair in which the woman is involved, and what is her role? Is or isn't the man a marquis? Who is the young man played by Fabrizio Bentivoglio, and why does he own that car? Does Basque nationalism have to do anything with the story? Everybody has something to hide, everybody seems guilty. The jazzy sound track of the movie (Cole Porter, John Coltrane) adds to the nostalgic tone, as well as the voice-off reporting the protagonist's existential, regretful reflections.
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A picaresque story
14 July 2001
A picaresque story, fascinating in its cosmopolitan/exotic atmosphere, pervaded by an aura of joy and lightness, which would turn slowly in a sense of sadness (marked by the deep change in Ilona's jocund personality) and would culminate in despair for the sudden unexpected tragedy. Unjustly underestimated at Venice Festival 1996.
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